Come Spotify usa l’IA per creare playlist davvero personalizzate

La maggior parte di noi apre Spotify senza pensarci troppo, avviamo l’app, premiamo play su una playlist raccomandata e la musica parte. Tutto sembra semplice e immediato, quasi scontato, eppure, dietro quel suggerimento che appare sulla home, quella playlist che sembra conoscerci meglio di quanto facciano i nostri amici, c’è un lavoro complesso, costruito negli anni da una combinazione di algoritmi, raccolta dati, modelli predittivi e scelte progettuali che hanno trasformato Spotify nella piattaforma di streaming più influente al mondo.

Il recommendation engine di Spotify è diventato talmente efficace che, per molti utenti, è più facile scoprire canzoni nuove attraverso il sistema automatico dell’app che tramite le radio, i social o i consigli di amici. È un risultato che non arriva per caso, ma il frutto di un’evoluzione che parte dai primi tentativi di suggerimenti automatici, arriva alla personalizzazione radicale del “Discover Weekly” e oggi si muove verso un ecosistema in cui l’intelligenza artificiale analizza ogni aspetto del nostro comportamento d’ascolto.

In queste righe proviamo a entrare in quel “dietro le quinte” che l’utente non vede, cercando di raccontare come Spotify capisce ciò che ci piace, come decide cosa proporci e perché a volte sembra anticipare addirittura i nostri gusti musicali.

Come Spotify interpreta ciò che ascolti?

Ogni ascolto che fai, dalla canzone messa in loop al brano skippato dopo dieci secondi, diventa un segnale. Spotify raccoglie queste informazioni e le interpreta, oltre a registrare il titolo che hai scelto, memorizza la modalità, il momento e la frequenza.

L’azienda lo definisce “user taste profile”, una sorta di carta d’identità musicale privata che cambia insieme a te: cosa vuol dire? Se per mesi ascolti indie rock e poi inizi a interessarti a colonne sonore cinematografiche, il tuo profilo si espande, si aggiorna, aggiunge sfumature e tutto questo avviene senza che tu debba comunicare nulla in modo esplicito.

Il punto fondamentale è che Spotify non guarda i generi musicali nel senso tradizionale, non ragiona in categorie come rock, pop, jazz ma su patterns, cioè nota somiglianze sottili come una certa atmosfera, una struttura di accordi, il ritmo medio dei brani, l’intensità vocale, la presenza o meno di strumenti acustici. Per farlo sfrutta un mix di analisi del comportamento umano e analisi del contenuto musicale.

A questo livello la AI non sceglie le canzoni al posto tuo, ma ti osserva, cerca schemi, impara cosa tende ad attirarti e cosa invece skippi senza pensarci.

L’analisi del contenuto: come Spotify studia la musica brano per brano

Se da un lato Spotify studia i tuoi comportamenti, dall’altro studia anche la musica stessa. Ogni brano caricato sulla piattaforma viene analizzato da un modello di intelligenza artificiale che ne interpreta decine di fattori: la brillantezza del suono, la presenza di basso, la complessità armonica, la velocità del beat, la strumentazione prevalente. L’AI distingue le caratteristiche vocali, individua momenti di “energia”, segnala se il pezzo ha un andamento crescente o stabile, se è malinconico o brillante.

Spotify crea una sorta di mappa tridimensionale in cui ogni canzone del suo catalogo, più di cento milioni di brani, viene posizionata accanto ad altre che presentano qualcosa in comune. È un lavoro immenso, possibile solo grazie a reti neurali che imparano a riconoscere caratteristiche audio con la precisione di un esperto.

Il risultato è che, quando stai ascoltando un pezzo e arrivi a fine brano, Spotify ha già una lista di alternative compatibili. Non “simili” nel senso generico, ma affini a livello tecnico e emotivo.

Come la AI collega utenti simili tra loro: la logica del “collaborative filtering”

Una parte del recommendation engine lavora sui dati individuali, un’altra si basa sul confronto tra utenti.

Che ragionamento c’è dietro? Se dieci persone con gusti molto simili al tuo iniziano ad ascoltare un artista nuovo, è probabile che quel nome potrebbe piacere anche a te. Non si tratta di una semplice media statistica, ma di una serie di relazioni costruite tra utenti che presentano comportamenti paralleli.

Questa logica, chiamata “collaborative filtering”, è stata uno dei pilastri delle prime versioni del Discover Weekly. Immaginalo come una sorta di passaparola digitale che avviene su scala gigante. Non è il tuo amico a consigliarti un brano, ma milioni di utenti anonimi che, senza saperlo, diventano parte di un modello che riconosce affinità.

Spotify non rivela pubblicamente le specifiche dei suoi algoritmi, ma molti ricercatori hanno notato che il sistema non conta solo la similarità dei gusti, tiene conto della tempistica. Se molte persone con un profilo musicale vicino al tuo iniziano a seguire una certa evoluzione, ad esempio, un passaggio dall’elettronica chill al dream pop, il motore di raccomandazione registra quel trend come un possibile percorso che potresti apprezzare anche tu.

È questo aspetto predittivo che rende Spotify sorprendente, perché non si limita a consigliarti ciò che hai già ascoltato, ma tenta di intuire la direzione verso cui ti stai muovendo.

Le Playlist personalizzate sono l’evoluzione del recommendation engine

Molti utenti danno per scontato che le playlist personalizzate siano tutte uguali, in realtà, ogni singolo utente ne riceve una versione personalizzata in modo quasi chirurgico. Discover Weekly, Release Radar, Daily Mix, On Repeat: nessuna è generata in blocco e poi distribuita. Ogni combinazione dipende dal tuo profilo musicale, dalla storia recente dei tuoi ascolti e da micro-segnali che Spotify interpreta come preferenze.

Discover Weekly, per esempio, è stata la rivoluzione. È la playlist che per prima ha dimostrato quanto l’intelligenza artificiale possa diventare una vera guida musicale. Il punto non è solo consigliarti musica nuova: è permetterti di scoprire artisti o generi che non avresti trovato da solo.

Al contrario, Release Radar è più orientata alle tue abitudini: cattura le nuove uscite degli artisti che già segui, ma inserisce anche qualche nome suggerito dall’algoritmo, una sorta di “apertura controllata”.

Daily Mix è più conservativa: tiene insieme brani che già conosci con altri che si trovano nell’orbita dei tuoi gusti consolidati. È come una playlist-comfort.

In tutti questi casi, il recommendation engine non si limita a pescare titoli in un database. Ascolta ciò che fai, registra come ti comporti dopo aver ricevuto un suggerimento e modifica le proposte future in base a ciò che ha imparato. In altre parole, sei parte attiva del sistema, ogni tua scelta plasma le playlist del giorno dopo.

Spotify e AI generativa: cosa sta cambiando nel 2025?

L’aspetto più recente dell’evoluzione di Spotify riguarda l’uso della AI generativa per affiancare, e in parte sostituire, la logica tradizionale basata sui dati. Non parliamo di playlist casuali, ma di playlist costruite con criteri creativi: mood specifici, sensazioni richieste dall’utente, contesti precisi.

Oggi sulla piattaforma sono già presenti funzioni che permettono di chiedere una playlist “serena ma non lenta”, “adatta per concentrarsi senza essere monotona”, “che ricorda le sonorità dei primi anni 2000 ma con un tocco più elettronico”. Queste indicazioni vengono interpretate da modelli avanzati, che si muovono tra contenuto audio, preferenze personali, comportamenti passati e richieste testuali.

È un cambio di prospettiva importante, non sei più tu ad adattarti alle playlist, ma è la playlist a nascere dalle tue intenzioni. Spotify sta testando internamente sistemi che generano anche transizioni tra un brano e l’altro, o micro-mix che si evolvono mentre li ascolti.

In futuro ogni utente potrebbe avere non solo playlist personalizzate, ma playlist create su misura in tempo reale, come se un DJ digitale stesse lavorando solo per lui.

Come vengono usati i tuoi dati e perché la personalizzazione non è casuale?

Spotify traccia abbastanza dati da capire quello che ti piace, ma non così tanto da profilarti fuori dalla piattaforma. Spotify studia ciò che accade nell’app, non la tua vita esterna.

Ciò che osserva è molto tecnico: quanto spesso ascolti un artista, quanto velocemente passi da un brano all’altro, quali dispositivi usi, se ascolti di più al mattino o alla sera. In pratica, crea un contesto. Se ascolti musica energica mentre corri, Spotify inizia a proporti pezzi che si adattano a quel ritmo; se ascolti musica lenta prima di dormire, la piattaforma capisce che quello è il tuo momento di decompressione.

È un sistema che migliora con l’uso, per cui i nuovi utenti hanno una personalizzazione minima, ma dopo qualche settimana iniziano ad apparire pattern chiari. Nel tempo, Spotify impara anche le eccezioni: se per una settimana ascolti solo musica natalizia, non assume che quello sia il tuo nuovo genere preferito. Riconosce la stagionalità.

Come Spotify ha intenzione di sfruttare l’IA in futuro

Negli ultimi mesi Spotify ha iniziato a sperimentare un approccio più profondo all’intelligenza artificiale, andando oltre la semplice analisi dei brani salvati o delle playlist più ascoltate. L’azienda sta lavorando a sistemi capaci di interpretare il “tono” delle abitudini d’ascolto, ovvero di capire non solo che tipo di musica preferisci, ma anche quando e perché la ascolti. Non è un algoritmo che etichetta le emozioni, ma un modello che riconosce schemi: l’ora del giorno, la durata dell’ascolto, la frequenza con cui salti un brano, persino il modo in cui torni più volte su specifici generi in particolari momenti della settimana.

Spotify sta cercando di trasformare questi segnali in suggerimenti più sensati e meno automatici. L’obiettivo è creare un’esperienza che ti accompagni, invece di limitarsi a propinare consigli generici. Un esempio? Se in una certa fascia oraria ascolti spesso musica soft, ma negli ultimi giorni ti sposti su ritmi più energici, il modello prova a capire se è un comportamento occasionale o l’inizio di un’abitudine. In questo modo può anticipare il prossimo passo e proporti musica che segue quel flusso invece di restare ancorato alle preferenze storiche. È un modo più umano di leggere l’ascolto, che supera il semplice “ti piace X quindi ti suggerisco Y”.

Spotify sta ancora sperimentando in questa direzione, ma l’idea che emerge è piuttosto chiara e cioè non limitarsi a proporti brani simili a quelli che ascolti di solito, ma capire come li ascolti e in che momento della giornata arrivano. L’obiettivo è creare una sorta di ritratto emotivo leggero, non invadente, che aiuti l’algoritmo a intuire cosa potrebbe accompagnarti meglio. È un livello di personalizzazione diverso, più vicino alla vita reale, che potrebbe cambiare il modo in cui ci muoviamo dentro la nostra musica quotidiana.

 

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